Il lavoro subordinato per la giurisprudenza

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Lo Studio Legale del Prof. Avv. Gaetano Edoardo Napoli e dell’Avv. Antonio Mollo cura le tematiche del diritto del lavoro in seguito a studi approfonditi delle applicazioni giurisprudenziali, rispondendo alle esigenze di chi cerca

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Di seguito si può leggere un resoconto – elaborato dall’Area Diritto del Lavoro dello Studio Legale – delle tradizionali applicazioni della giurisprudenza in materia di lavoro subordinato


La giurisprudenza sul rapporto di lavoro subordinato

Esaminando talune decisioni giurisprudenziali non si può non cogliere come talvolta il concetto di direttiva datoriale, e il conseguente riconoscimento della subordinazione, risulti particolamente dilatato.

Il riferimento è alla fattispecie concernente un rapporto di lavoro di una giornalista esaminato dal Supremo Collegio con decisione del 7 settembre 2006 n. 19231. Nel caso in questione, la Corte ha affermato che: “la subordinazione non è esclusa dal fatto che il prestatore goda di una certa libertà di movimento e non sia obbligato al rispetto di un orario predeterminato o alla continua permanenza sul luogo di lavoro, non essendo neanche incompatibile con il suddetto vincolo la commisurazione della retribuzione a singole prestazioni, essendo invece determinante che il giornalista si tenga stabilmente a disposizione dell’editore, anche nell’intervallo fra una prestazione e l’altra, per evaderne richieste variabili e non sempre predeterminate e predeterminabili, eseguendone direttive e istruzioni”.

Dunque il la Suprema Corte ha ritenuto che seppure la giornalista

a) godesse di una certa libertà di movimento,

b) non fosse tenuta al rispetto di un certo orario di lavoro,

c) non fosse tenuta a garantire la presenza in modo continuato sul posto di lavoro,

d) ricevesse una retribuzione commisurata alle singole prestazioni,

la stessa era da inquadrare quale lavoratrice subordinata in quanto si teneva stabilmente a disposizione dell’editore, anche nell’intervallo fra una prestazione e l’altra, per evaderne richieste variabili, in esecuzione di direttive ed istruzioni.

Altro criterio che la giurisprudenza ha adottato per distinguere il rapporto di lavoro autonomo da quello di lavoro subordinato è quello del rischio che, come noto, ricade interamente sul lavoratore autonomo – ovvero colui che opera senza vincoli di subordinazione per l’esecuzione di un’opera o di un serivzio – mentre nel rapporto di lavoro subordinato il rischio è sopportato dal datore di lavoro, poiché al prestatore è richiesto esclusivamente di eseguire con diligenza la prestazione lavorativa.

L’insufficienza di tali criteri ha indotto la giurisprudenza a ritenerli complementari: la Cassazione, infatti, con la pronunzia del 26 maggio 2014, n. 11724, ha affermato che: “l’elemento che contraddistingue il rapporto di lavoro subordinato rispetto al rapporto di lavoro autonomo, assumendo la funzione di parametro normativo di individuazione della natura subordinata del rapporto stesso, è l’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro, con conseguente limitazione della sua autonomia ed inserimento nell’organizzazione aziendale, mentre altri elementi, quali l’assenza di rischio, la continuità della prestazione, l’osservanza di un orario e la forma della retribuzione assumono natura meramente sussidiaria e non decisiva”.

È a questi requisiti che un avvocato diritto del lavoro deve rivolgere l’attenzione, considerando, soprattutto, il comportamento delle parti successivo alla conclusione del contratto, elemento a cui accordare prevalenza nel caso in cui questo diverga dalla volontà espressa in uno scritto.

Secondo il Supremo Collegio, infatti, come si legge nella decisione n. 16253 resa in data 16 luglio 2014, ai fini della qualificazione di un rapporto di lavoro subordinato, si deve avere riguardo “ai dati di fatto risultanti dal concreto svolgimento del rapporto, piuttosto che alla volontà espressa dalle parti nella scrittura sottoscritta dalle stesse”.

Negli stessi termini, si richiama altra decisione della Corte di Cassazione del 26 luglio 2011, n. 16254, in cui si è statutito che nell’ambito della verifica della natura del rapporto in base a dati fattuali, l’elemento che contraddistingue il rapporto di lavoro subordinato rispetto al rapporto di lavoro autonomo, […] è l’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro, con conseguente limitazione della sua autonomia, mentre altri elementi, quali l’assenza di rischio, la continuità della prestazione, l’osservanza di un orario e la forma della retribuzione assumono natura meramente sussidiaria e non decisiva.

Più specificamente – prosegue il Collegio – la subordinazione viene configurata come soggezione del prestatore di lavoro al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro, che discende dall’emanazione di ordini specifici, oltre dall’esercizio di un’assidua attività di vigilanza e controllo sull’esecuzione della prestazione lavorativa. In base a tali considerazioni, risulta ininfluente che la prestazione si svolga in maniera ripetitiva, e che la stessa si protragga nel tempo con le stesse modalità all’interno dell’impresa, senza assunzioni di rischio da parte del prestatore; né tali circostanze e modalità implicano, di per sé, l’assoggettamento al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro, essendo compatibili anche con il lavoro autonomo.

E ancora, con la sentenza del 28 luglio 2008 n. 20532, i giudici di legittimità hanno affermato che “gli elementi che differenziano il lavoro subordinato dal lavoro autonomo sono l’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare datoriale, con conseguente limitazione della sua autonomia e suo inserimento nell’organizzazione aziendale (id est sussistenza effettiva del vincolo di subordinazione)”.

In particolare, tali elementi debbono essere apprezzati con riguardo alla specificità dell’incarico conferito al lavoratore ed al modo della sua attuazione atteso che, in linea di principio, il potere direttivo deve estrinsecarsi in ordini specifici, perché è attraverso gli stessi (e mediante non solo direttive di carattere generale configurabili anche nel lavoro autonomo), che viene assicurata la cd. conformazione della prestazione del lavoratore subordinato rispetto alle esigenze dell’impresa.
Altri elementi, invece – quali la cd. assenza del rischio, la continuità della prestazione, l’osservanza di un orario, la localizzazione della prestazione e la cadenza e la misura fissa della retribuzione – assumono natura meramente sussidiaria e non decisiva.

Vi è da considerare inoltre che la qualificazione del rapporto compiuta dalle parti nell’iniziale stipulazione del contratto non è necessariamente determinante, sicché un avvocato diritto del lavoro cui uno dei contraenti si rivolga deve tenere presente che, nei rapporti di durata, il comportamento delle parti può essere idoneo ad esprimere sia una diversa effettiva volontà contrattuale, sia una nuova diversa realtà effettuale.

Esaminiamo un altro caso in cui la Suprema Corte di cassazione – con pronunzia del 30 luglio 2012, n. 13594 – ha escluso la configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato. Nella specie, si trattava di un lavoratore che era responsabile commericale di una società, a cui la datrice di lavoro – con cui era stato sottoscritto un contratto di lavoro autonomo – aveva messo a disposizione l’auto aziendale nonché la linea del telefax presso l’abitazione del lavoratore medesimo, che era diversa dalla sede legale della società datrice di lavoro. Ebbene, la Cassazione ha stabilito che l’aver dotato il lavoratore di beni aziendali (quali appunto la macchina, il fax o il cellulare) non è di per sé comportamento atto a configurare un rapporto di lavoro subordinato. In sostanza, la Corte ha spiegato come la dotazione o il possesso di beni aziendali prescindono dal collegamento con un dato luogo, mentre la possibilità di fruire di una linea per il telefax rappresenta un elemento esiguo per postulare nell’abitazione del lavoratore una dipendenza aziendale.


 

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