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Lo Studio Legale del Prof. Avv. Gaetano Edoardo Napoli e dell’Avv. Antonio Mollo è altamente specializzato in materia, rispondendo alle esigenze di chi cerchi

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Di seguito, il sunto dei risultati di una ricerca del Prof. Avv. Gaetano Edoardo Napoli in tema di impresa falimiare.

 

L’impresa familiare è un istituto sorto con la riforma del diritto di famiglia del 1975. L’intento del legislatore è stato quello di rispondere alle esigenze di tutela del lavoro familiare.

La fattispecie è quella di una comunità paritaria di lavoro fondata essenzialmente sulla solidarietà familiare.

Si tratta di un gruppo di persone che svolgono un’attività produttiva unitaria. con apporto continuativo di attività lavorativa.

L’impresa familiare promuove un diverso modello di famiglia rispetto al quello della famiglia nucleare: vengono valorizzati i valori solidaristici insiti nella collaborazione dei parenti, entro il terzo grado, e degli affini. Ci si riferisce, quindi, a un quadro familiare allargato, diverso però dall’antico modello patriarcale: sono stati infatti eliminati gli antichi privilegi del c.d. “capo famiglia”.

Una delle novità legislative è stata rappresentata dalla previsione della possibilità di partecipazione all’impresa familiare anche mediante un’attività prestata tra le mura domestiche.

In via generale, la normativa italiana, riconosce al soggetto che contribuisce con il proprio lavoro all’impresa familiare il diritto al mantenimento (tale diritto esula dalle forme di pagamento del corrispettivo proprie del diritto del lavoro).

Il familiare partecipa anche agli utili e ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato.

In giurisprudenza è stato affermato che gli utili da attribuire ai partecipanti devono essere calcolati al netto delle spese di mantenimento (si veda Cass. 23 giugno 2008 n. 17057).

Al riguardo, è previsto che i compartecipi decidono a maggioranza sull’impiego degli utili, degli incrementi, degli indirizzi produttivi, ma anche sulla cessazione dell’impresa, spettando ad essi le decisioni relative agli atti di straordinaria amministrazione.

L’amministrazione ordinaria spetta invece all’amministratore, che può assumere l’incarico sia espressamente che tacitamente, per fatti concludenti.

In caso di delibera (a maggioranza) di scioglimento dell’impresa familiare sorge la necessità di dividere i beni: essi vengono attribuiti pro quota ai compartecipi, con applicazione delle norme sulla divisione ereditaria.

Nel calcolo della maggioranza si valorizza la persona più che il valore della quota: ogni compartecipe ha diritto a un voto, di identico peso rispetto a quello degli altri.

Lo scioglimento del rapporto può riguardare anche un solo compartecipe, che intenda recedere.

Per una giusta ragione, la maggioranza dei compartecipi può, per altro, escludere uno dei familiari dalla partecipazione all’impresa.

In caso di trasferimento dell’azienda o di divisione ereditaria della stessa, il compartecipe ha diritto di prelazione, con applicazione, in quanto compatibile, dell’art. 732 c.c.

Si tratta di una prelazione legale, con diritto di riscatto verso l’eventuale terzo acquirente.

Deve effettuarsi un coordinamento con le norme sul patto di famiglia.

Il diritto, spettante a chi partecipa all’impresa familiare, di essere preferito a terzi nell’acquisto delle quote dell’azienda non deve infatti risultare leso da un patto di famiglia, alla cui redazione egli potrebbe anche non aver partecipato: l’art. 768-quater, infatti, prevede che alla redazione del patto di famiglia devono partecipare il coniuge dell’imprenditore disponente e tutti coloro che sarebbero legittimari ove in quel momento si aprisse la successione nel patrimonio dell’imprenditore stesso (non quindi tutti i titolari dell’impresa familiare).

L’eventuale presenza del compartecipe al momento della stipula del patto di famiglia non porta a diversa soluzione: infatti, la normativa sul patto di famiglia, che si pone in deroga ai principi generali in materia di successioni, in considerazione di questo suo carattere eccezionale, non può essere applicata nei confronti di altri soggetti, anche se si tratti di partecipanti all’impresa familiare.

Il compartecipe può tuttavia, con autonomo contratto, cedere il proprio diritto di prelazione.

L’impresa familiare viene configurata come un tipo di società avente fonte nella legge (non in un contratto di società) che si discosta dagli schemi tradizionali.

La sua previsione nel codice civile ha inteso attribuire valore al lavoro svolto dal familiare, superando la tradizionale considerazione, in termini di gratuità, del lavoro familiare (in precedenza il lavoro del familiare, in particolare della moglie dell’imprenditore, non trovava alcun riconoscimento giuridico): viene così salvaguardata la dignità dell’uomo, lavoratore, nella comunità familiare in cui si colloca.

In seguito alle riforme del diritto di famiglia, la comunità familiare è divenuta il fulcro per una collaborazione solidaristica tra coniugi e altri congiunti, da cui sorgono diritti e obblighi senza discriminazioni.

Proprio la condizione paritaria della situazione di lavoro dei compartecipi fa escludere ogni equiparazione col lavoro subordinato, quindi ogni tradizionale tutela giuslavoristica.

I familiari che partecipano non assumono la qualifica di “imprenditori”, ma hanno titolo per esercitare i poteri di gestione.

La partecipazione dei familiari non altera la situazione proprietaria che riguarda i beni che servono all’esercizio dell’impresa.

La norma sull’impresa familiare fa “salvo che sia configurabile un diverso rapporto”. ciò rivela il carattere residuale dell’istituto. Quindi, un rapporto di lavoro subordinato, o un rapporto di società, esclude l’impresa familiare.

In giurisprudenza, si afferma inoltre che l’esercizio dell’impresa familiare è incompatibile con la disciplina societaria attesa l’irriducibilità a una qualsiasi tipologia societaria della specifica regolamentazione prevista dall’art. 230-bis in ordine alla partecipazione del familiare agli utili e ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell’azienda (che sono distribuiti in proporzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato e non alla quota di partecipazione), sussistendo altresì il riconoscimento di diritti corporativi al familiare del socio in conflitto con le regole imperative del sistema societario (Cass., 6 novembre 2014, n. 23676, che precisa come tale soluzione sia coerente con una interpretazione teleologica della norma, che si evince dall’«incipit» dell’art. 230 bis c.c. – «salvo sia configurabile un diverso rapporto» – e prefigura l’istituto dell’impresa familiare come autonomo, di carattere speciale, ma non eccezionale, con natura residuale rispetto a ogni altro rapporto negoziale eventualmente configurabile).

La norma in commento può applicarsi anche all’attività precaria o di associazione in partecipazione, perfino nel caso in cui i proventi siano così irrisori da far ipotizzare che la prestazione lavorativa sia a titolo gratuito (o quasi).

Secondo un orientamento, che va criticato, l’impresa familiare sarebbe compatibile con la società di fatto (Cass., 19 ottobre 2000, n. 13861). Riteniamo, al riguardo, che nel caso di società – anche di fatto – la disciplina applicabile debba essere sempre quella societaria.

Di segno opposto, del resto, appare l’orientamento per cui l’impresa familiare non è un rapporto di fatto, che prescinde dalla volontà degli interessati, occorrendo per la sua costituzione un atto negoziale o l’esistenza di fatti concludenti idonei a tal fine (Cass. 27 gennaio 2000, n. 901).

La Suprema Corte ha affermato che l’art. 2557 c.c. – divieto di concorrenza per cinque anni a carico di chi aliena l’azienda – non avendo natura eccezionale, in quanto non diretto a derogare a un principio di libera concorrenza bensì a disciplinare gli effetti del rapporto tra le parti, è applicabile per analogia all’ipotesi del cedente l’azienda che abbia poi intrapreso un’attività commerciale concorrente avvalendosi della partecipazione in un’impresa familiare per dissimulare la propria posizione (Cass. 25 giugno 2014 n. 14471).

L’impresa familiare sorge col mero svolgimento di attività lavorativa continuativa da parte di un gruppo familiare. In giurisprudenza, viene considerata idonea al fine della partecipazione all’impresa familiare, anche l’attività di redazione giornaliera della contabilità, di tenuta dei rapporti con i fornitori, di aiuto, anche se non continuativo, all’esercizio dell’attività aziendale.

Si è arrivati ad affermare che anche l’attività di studio per il conseguimento della laurea può integrare un apporto nell’impresa familiare, quale investimento nella formazione professionale economicamente valutabile (Cass. 27 gennaio 2000 n. 901).

L’attività svolta rileva proprio per la cooperazione lavorativa dei congiunti.

Anche se l’attività viene prestata all’interno dei locali abitativi, domestici, fuori dei locali dell’impresa, rileva ai fini della configurazione del rapporto di cui all’art. 230-bis.

L’attività domestica rivela partecipazione a impresa familiare se è orientata al raggiungimento dello scopo economico dell’impresa, comportando una propria produttività relativa (si veda Cass. 16 dicembre 2005 n. 27839, che precisa come lo svolgimento di mansioni in ambito domestico, da parte del coniuge dell’imprenditore, non dia luogo all’impresa familiare, trattandosi di normale adempimento degli obblighi nascenti dal matrimonio).

Rientrano nella fattispecie di tutela dell’art. 230-bis il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo grado: il rapporto di coniugio, parentela o affinità deve legare il soggetto a un qualsiasi compartecipe (è tuttavia diffusa la tesi contraria, per la quale il vincolo deve sussistere nei confronti di chi riveste la qualifica di imprenditore).

Si ritiene che anche ove non vi sia corrispondenza con una reale situazione giuridica, come avviene, ad esempio, in caso di matrimonio nullo, la prestazione di attività lavorativa di carattere continuativo conduca all’applicazione della disciplina di favore prevista per l’impresa familiare.

Il figlio nato da genitori non uniti in matrimonio tra loro ha pieno titolo alla partecipazione all’organizzazione lavorativa prevista dall’art. 230-bis e ciò doveva valere anche prima della riforma della filiazione – l. 10 dicembre 2012, n. 219 – che ha unificato lo stato di figlio.

Il coniuge e i suoi parenti perdono il diritto di partecipare in caso di cessazione degli effetti civili del matrimonio.

Quanto al disconoscimento del figlio, esso porta alla risoluzione del vincolo, come avviene in caso di revoca dell’adozione.

Anche gli incapaci (minori, interdetti, rappresentati nella manifestazione di voto per le decisioni) hanno diritto a far parte della comunità di lavoro dell’impresa familiare.

La ragione giustificatrice della tutela prevista dalla norma risiede nell’esigenza di garantire la solidarietà familiare. Ciò dovrebbe condurre ad ammettere la partecipazione del convivente more uxorio. La giurisprudenza di legittimità, in passato, si orientava in senso contrario (Cass. 2 maggio 1994 n. 4204). Veniva considerato presupposto imprescindibile, per l’applicabilità della disciplina dell’impresa familiare, la sussistenza di una famiglia fondata sul matrimonio, con esclusione della famiglia di fatto (Cass. 29 novembre 2004 n. 22405). Tuttavia, successivamente, la Suprema Corte ha mostrato maggiore apertura verso il riconoscimento della convivenza di tipo matrimoniale quale titolo di partecipazione all’impresa familiare (Cass., 15 marzo 2006 n. 5632).

Quanto ai diritti dei compartecipi, quale corrispettivo per l’attività lavorativa prestata è previsto il mantenimento, da determinare in relazione al tenore di vita della famiglia, commisurato ai profitti dell’impresa, al fine della ripartizione della ricchezza familiare.

L’utilizzazione degli utili e degli incrementi, con delibera assunta a maggioranza, quindi con decisione di alcuni (non necessariamente tutti) compartecipi, incontra, quale limite, il diritto di tutti al mantenimento. Devono anche risultare soddisfatte le esigenze di vita della famiglia del compartecipe.

La solidarietà insita nell’applicazione dell’istituto fa escludere, secondo autorevole dottrina, ogni conflittualità tra classe lavoratrice e classe imprenditoriale nell’impresa familiare.

I creditori dell’impresa possono aggredire i beni acquistati per l’esercizio (o nell’esercizio) dell’attività. Ciò è escluso se si tratta di decisioni assunte da un compartecipe non legittimato. Si ricorda, al riguardo che gli atti di straordinaria amministrazione devono essere adottati su decisione presa a maggioranza.

Il compartecipe che, al sorgere del credito, non ha agito per conto dell’impresa non può risponderne illimitatamente col proprio patrimonio.

La norma in analisi si applica, sia alle piccole imprese, come quelle artigiane, sia alla imprese di medie o grandi dimensioni.

In relazione al diritto agli utili e agli incrementi, devono essere effettuate alcune notazioni. É considerato incremento ogni aumento di valore che si realizza nell’insieme dei beni aziendali. Il familiare, membro dell’impresa, partecipa agli utili e ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del proprio lavoro (cfr. Cass. 5 settembre 2012 n. 14908; Cass. 8 marzo 2012, n. 3627).

Il familiare non ha autonomo potere sugli utili e sugli incrementi, in quanto è la maggioranza a poter deciderne l’impiego.


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